È difficile trovare nel mondo un cocktail iconico in grado di lasciare un’impronta indelebile nell’immaginario collettivo come il Martini. Questa bevanda ha attraversato oltre un secolo di storia e, rispetto a molti altri cocktail, è stata oggetto di variazioni e sperimentazioni. È uno dei drink più soggetti a specifiche al momento di ordinarlo al bancone, ma allo stesso tempo forse è quello che meglio incarna l’essenza stessa del concetto di cocktail, rimanendo un classico senza tempo.
Ampiamente presente in ambito letterario e cinematografico, citato da Hemingway, Francis Scott Fitzgerald e Umberto Eco, senza dimenticare il celeberrimo Vesper “agitato e non mescolato” che Ian Fleming faceva gustare nei suoi romanzi a James Bond. Amato anche da figure centrali nella storia politica dell’ultimo secolo, da Franklin Delano Roosevelt a Nikita Chruščëv.
Ed è forse il cocktail su cui più di ogni altro esistono speculazioni sulle sue vere origini. Sebbene sia ampiamente accettato che il Martini discenda molto probabilmente da un altro popolare drink, il Manhattan, il momento in cui “nasce” culturalmente è generalmente una convenzione utilizzata per codificare, dare regole e classificare qualcosa di antecedente.
La leggenda dietro alla nascita del Martini è fatta di assonanze, olive, sospetti riferimenti territoriali, coincidenze nominali e documentazioni mancanti.
Va notato fin da subito che in questa storia il Martini sembra non appartenere allo storico marchio fondato da Alessandro Martini e Teofilo Sola nel 1863 a Torino.
L’anno precedente, nel 1862, il leggendario barista Jerry Thomas, detto “Il Professore”, aveva pubblicato la prima edizione del suo “Bartender’s Guide”, nel quale ad un certo punto parla di un cocktail, che la leggenda vuole abbia creato 2 anni prima in un bar di San Francisco, contenente bitter, gin, maraschino e Vermouth dolce. Lo aveva preparato per un viaggiatore diretto nella vicina città di Martinez a nord-est della Bay Area e così aveva deciso di chiamarlo. Proprio a Martinez è ambientato il secondo capitolo di questa storia. 12 anni più tardi, nel 1874, in un bar nei dintorni del 911 di Alhambra Avenue, un minatore entra con una discreta sete, una manciata di pepite in mano e la voglia di qualcosa di speciale. Il barista, Julio Richelieu accoglie la richiesta e gli serve un bicchiere con dentro 2/3 di gin, 1/3 di Vermouth, una spruzzata di bitter all’arancia sul ghiaccio tritato e, come guarnizione, un’oliva, chiamandolo “Martinez Special”. Ancora oggi a quell’indirizzo c’è una targa commemorativa che attribuisce a quel momento la nascita del Martini in quanto, stando alla targa stessa, “dopo tre o quattro bicchieri la ‘z’ si è un po’ persa per strada”.
Due versioni considerate meno attendibili emergono quando si esamina retrospettivamente ciò che era possibile trovare nei bar americani alla fine dell’Ottocento e all’inizio del Novecento.
“Nelle Americhe all’epoca non era molto diffuso il Vermouth, quindi è difficile pensare che nel caso delle prime due versioni potesse esserci la possibilità di utilizzo o addirittura di conoscenza di questo ingrediente. Non abbiamo sicurezze a riguardo chiaramente, quindi non ci sentiamo di escludere nulla. In America si usava soprattutto tequila, rum o whisky”, ci spiega Max Peano, della sezione sanremese dell’Aibes (Associazione Italiana Barman e Sostenitori), che in passato, prendendo a cuore la vicenda, ha operato studi per cercare di risalire alla vera origine del cocktail.
Il terzo scenario ci porta dall’altro lato del continente statunitense nel 1915, quando un giovane di circa vent’anni arriva a New York via nave da Genova. È nato a Taggia e si chiama Clemente Queirolo. Si è imbarcato per gli Stati Uniti al momento dell’ingresso dell’Italia nella Prima Guerra Mondiale, senza una destinazione precisa iniziale. Tuttavia, durante il viaggio in nave, ha fatto la conoscenza di ristoratori marchigiani e ha deciso di unirsi a loro. Una volta arrivato nella Grande Mela, al momento della registrazione, ha optato per cambiare il proprio cognome. Forse lo ha fatto per il timore di essere richiamato in patria per il servizio militare, ma forse, soprattutto, per utilizzare un cognome più facile da scrivere e pronunciare per gli americani. Ha scelto il cognome della madre, Martini, ampiamente diffuso a Taggia.
In breve tempo, Clemente si trova a ricoprire il ruolo di barman presso un’icona dell’epoca, il Knickerbocker Hotel. Qui, il suo talento e le sue creazioni non passano inosservati e attirano più di un ammiratore. Tra questi, uno spicca in particolare: John Davison Rockefeller, l’uomo che ha rivoluzionato l’industria petrolifera, fondato la Standard Oil e detenuto il 1,5% del PIL americano da solo. Per dare un’idea della sua potenza economica, si stima che il suo patrimonio, adeguato all’inflazione attuale, oscillerebbe tra i 350 e i 700 miliardi di dollari. Una cifra “senza senso” che, nella stima più cauta, supera il patrimonio combinato di Jeff Bezos ed Elon Musk, rendendolo, secondo alcuni, l’uomo più ricco mai esistito, secondo solo al leggendario sovrano africano Mansa Musa.
Rockefeller si appassiona ai drink di Clemente, in particolare a uno che, sebbene presenti somiglianze con le creazioni attribuite a Thomas e Richelieu, si distingue per una differenza sostanziale. Nel suo cocktail, il vermut che si mescola al gin (presumibilmente un Gordon) non è più rosso, ma bianco e secco. A questo, Queirolo aggiunge come tocco finale l’oliva, apparentemente in modo del tutto casuale. Sembrerebbe che al momento dell’ideazione, l’unica cosa disponibile fosse un barattolo di olive taggiasche che aveva portato con sé. È importante sottolineare che la concezione di ogni aspetto relativo alla cucina e ai prodotti italiani oggi è radicalmente diversa da quella dell’epoca, e le olive taggiasche probabilmente non godevano della stessa notorietà che hanno oggi.
Uno dei motivi per cui l’oliva è ritenuta più probabile come guarnizione è che, presumibilmente, i limoni non erano disponibili per essere utilizzati come decorazione. “Tutti i cocktail nati all’epoca includevano ciliegia o maraschino sotto alcool, oppure oliva, o in alcuni casi arancio e lime, ma non abbiamo testimonianze dell’uso del limone”, dichiara Peano.
In ogni caso, quando il ricco americano, ormai inebriato e intrigato, chiede dettagli sul nome del cocktail, Clemente decide di attribuirgli il cognome della madre: Martini.
Da qui inizia la storia più consolidata di questo drink, che attraverso numerose variazioni giunge all’attualità, mantenendo un’aura al tempo stesso immutabile e incompiuta. Il Martini, nonostante la temperatura di servizio, la giusta diluizione, la coppetta ghiacciata e ingredienti di qualità, non ha ancora una versione definitiva. Forse il senso compiuto dell’essenza di questa bevanda è fornito da un autentico maestro del panorama dei bartender italiani contemporanei come Mauro Lotti, il quale afferma: “Non esiste il Martini perfetto, ma c’è un Martini per ognuno di noi. Basta solo scoprire quale sia”.
L’intervista completa a Max Peano nel video servizio a inizio articolo.