Marino Palleschi è stato un noto matematico, professore presso l’Università degli Studi di Milano dove io mi sono laureato diversi lustri fa. Fu mio insegnante di ben due corsi di Geometria Superiore. Il nostro rapporto professore-alunno fu tra i più insignificanti che ebbi all’interno del dipartimento, ma una sera ci incontrammo al Bar Ricci di Milano, celebre locale della movida gay milanese.
Mi avvicinai per salutarlo e mi disse “adesso possiamo darci del tu”. Da allora cominciammo a vederci molto spesso, lui era senz’auto, io senza quattrini ma con una Uno bianca scassata, nonché diversi amici giovani e carini. È facile immaginare che le nostre necessità si sposassero molto bene. Fu così che Marino divenne finanziatore delle nostre serate, tra balletti alla Scala, ristoranti e pieni di benzina, mentre io divenni una specie di conducente über ante litteram (et ad personam).
Classe 1947, ci raccontava spesso delle retate della polizia nei locali gay degli anni ’70 e ’80, quando ancora, senza un reale motivo, le persone omosessuali venivano portate in questura e schedate. Ci raccontava del suo unico grande amore, “un gran bugiardo”, con cui ebbe una relazione di sette anni. E di questo partner ci parlava anche quando, con amarezza, ci ricordava le discriminazioni subite sul posto di lavoro. Due episodi, in particolare, lo segnarono molto. Il primo fu forse il più amaro: un giorno decise di confidarsi con un suo collega nonché caro amico, ma quando gli disse “ti vorrei parlare” la risposta, secca, fu “se è quello che immagino non lo voglio sapere, quindi non dirmi niente”.
La seconda capitò durante l’organizzazione di una cena tra colleghi matematici: sull’annoso dubbio se presentarsi soli o con i rispettivi partner decisero che quella volta si sarebbero presentati accompagnati. Marino disse quindi che avrebbe portato il suo compagno, ma gli risposero che non era il caso di portare “amici” alla tavola dei colleghi. Non ribatté, silenziosamente accettò il responso. Non era timido, né tanto meno remissivo, ma non era neanche attivista.
Lo diventò, o quasi, recentemente, dopo che, abbandonata la matematica, cominciò a dedicarsi al balletto da spettatore e stimato critico. Arrogante ma simpatico, brillante ma scontroso, riconobbe solo in tarda età la necessità di battersi per la causa LGBT+ e ai tempi dello “Svegliati Italia” si congratulò con me per essere sempre stato attivista, anche quando non mi conveniva (e non conviene quasi mai). Credo sia stato l’unico complimento che abbia mai ricevuto da lui.
Mi promise, ormai quasi vent’anni fa, che una volta morto mi avrebbe regalato tutti i suoi libri di matematica. Anzi, confesso, glielo feci promettere. Condividevamo infatti un senso dell’umorismo un po’ macabro e spesso volgare, ma mai scontato. Non so cosa abbia imparato da lui. Forse ho appreso ad apprezzare i piccoli passi fatti dal mondo verso l’accettazione delle persone LGBT+, strada ancora lunga, ma meno tortuosa rispetto a trent’anni fa.
Essere adolescente e gay negli anni ’60 dev’essere stato davvero orribile. “Quanto vale questo quadro?” gli chiesi un giorno rovistando tra le sue costose anticaglie. “Quanto un bacio di un ballerino”. Ciao Marino, ci rivedremo all’inferno.
Marco Antei