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Proseguono le lezioni ‘du nosciu dialettu con Giannetto Novaro, superstite di un’epoca la cui società era basata sul ciclo annuale delle operazioni agricole.

All’interno del libro ‘Diano Castello. Arte, storia, cultura e tradizioni di un borgo ligure‘ sono numerosi gli interventi volti ad approfondire il ‘Castrum Diani‘, una perla tra le perle del Golfo Dianese. La memoria e la tradizione sono state affidate proprio a Giannetto che, per sua lunga esperienza di presidente della Communitas Diani, è profondo conoscitore.

Ai nostri microfoni Novaro ha spiegato: ‘Quônde u gh’è e môe in s’u ruve’, u gh’è fighe in sa virsa‘. ‘Quando ci sono le more sul roveto ci sono i fichi a seccare sui graticci’. Un tempo i fichi venivano in gran parte messi a seccare al sole su graticci di canne intrecciate, le ‘virse’. Il fico era molto coltivato nelle nostre vallate perché i suoi frutti, una volta essiccati, venivano conservati per i mesi invernali in cassapanche assieme a foglie d’alloro. Erano preziosi nelle annate più difficili. Bisogna ricordare che un tempo molte famiglie versavano in difficoltà economiche e non esistevano i frigoriferi. Chi, fra gli anziani, non ricorda quei meravigliosi fichi secchi coperti da una spessa patina di ‘rôxa‘ gustati assieme alle mandorle alla fine dei pranzi più importanti dell’inverno? I fichi secchi erano commestibili fino a Carnevale inoltrato, anche durante la Quaresima, poi cominciavano a cambiar gusto e a guastarsi.

Legato a questo, Novaro ha spiegato anche ‘Ae fighe a Pasqua u ghe vegne a lelùia‘: i fichi secchi a Pasqua inacidiscono. Alcuni ritengono che il vocabolo ‘lelùia‘ derivi proprio dal fatto che i fichi cominciassero a guastarsi nel periodo pasquale, quando l’espressione Alleluia è ripetuta spesso durante le celebrazioni religiose.

La spiegazione integrale di Novaro nel video-servizio a inizio articolo.