Mi dispiace per i pianti disperati dei nostri due lettori -è bene essere schietti: sono, o meglio, siamo pochi- poiché questo è l’ultimo articolo di Inchiostro Digitale per quest’anno scolastico. Lo sto scrivendo con forte entusiasmo e egocentrismo avendo interpretato la richiesta scriverlo da parte di Anna Mastrantuono, caporedattrice del blog che ringrazio pubblicamente per il lavoro svolto durante l’anno, come uno speciale editoriale conclusivo. Abbiamo fatto del nostro meglio, abbiamo mantenuto il ritmo, abbiamo scritto con passione, ma forse non abbiamo avuto la risposta che avremmo desiderato. In ogni caso abbiamo perseverato in quanto redazione appassionata e convinta nella forza del medium più vecchio del mondo, quale è la scrittura su Inchiostro, ora divenuto Digitale. Abbiamo condiviso i nostri pensieri, le nostre perplessità riguardanti il mondo attorno a noi nel miglior modo possibile, consapevoli del fatto che scrivere non ha fatto bene a chi ha letto ma ne ha fatto a noi, persone nuove dopo la stesura di un articolo del quale siamo soddisfatti.
Giungendo al dunque, dopo esagerati preamboli pieni di subordinate per celare dietro periodi complessi e quasi incomprensibili la mia ignoranza in materia di scrittura, in questo momento mi sto chiedendo perché siamo agitati.
Perché siamo agitati? È una domanda brutta, non mi piace il termine “agitato”, eppure è quello che meglio esprime ciò che sento e ciò che temo sentano molte persone nel XXI secolo. No, non ritengo l’agitazione l’ennesimo sintomo sventolato pessimisticamente dai media come causato dalla nuova società e di cui sono malati i millennials. Parlo di ventunesimo secolo perché è quello in cui vivo e non ho conoscenze sufficienti ad avere una visione abbastanza critica dell’uomo prima della mia nascita.
Eppure tutti, da mio cugino di 5 anni ad una mia qualunque professoressa di 55, dal mio migliore amico a me, siamo davvero in uno stato di agitazione di cui non so spiegarmi la causa. Siamo pronti ad attaccarci appena qualcosa di storto salta su, oppure, a me succede davvero spesso, basta un dettaglio insignificante ma estremamente scomodo della nostra giornata per condizionarla e rovinarla del tutto. È quello che facciamo a renderci inquieti? Abbiamo troppi pensieri? Abbiamo troppi problemi? Oppure è come pensiamo?
Domenica scorsa, chiacchierando, il mitico Don Umberto, parroco di Santo Stefano al Mare, mi ha raccontato di sua zia, Madre Tommasina Revelli, suora dell’ordine delle Domenicane. Ebbe modo di collaborare con Papa Giovanni XXIII, che le trasmise un modus operandi {però soprattutto modus vivendi a mio avviso} secondo cui, per quanto pesante o complessa sia la faccenda di cui ci si deve occupare, bisogna terminarla totalmente per poi non pensarci più o, almeno, archiviarla finché non nuovamente necessaria. Così facendo Suor Tommasina poteva doversi occupare di un’incombenza grave come quella di espellere una consorella ma una volta soppesata a dovere la situazione e considerate a fondo le problematiche, prendeva una decisione troncando il flusso di pensieri negativi o titubanti e riuscendo a scendere in strada sorridente ed aperta, consapevole del fatto di non poter fare di più.
Serve un esempio del secolo scorso per aiutarci a cavarci fuori da questa ipercinetica inutile sproporzionata agitazione? Il Don ha tenuto a precisare che “è morta nel 1983, quando internet non esisteva”… Forse dunque la rete ed internet, l’iperconnessione e l’ipercondivisione potrebbero esser parte della causa… non so, e non potrò saperlo finché non sarò giunto ad una conclusione.
Mi chiedo però ancora solamente una cosa: perché la campagna incontaminata da pregiudizi e tensioni malevole di Call Me By Your Name e la leggerezza distaccata e la personalità assorta di Theo ed Isabelle così ben rappresentate da Bertolucci in The Dreamers ci appaiono così distanti?
Perché non possiamo ritornare allo Stato di Natura? Perché non possiamo staccare? Forse non possiamo perché non sappiamo ribellarci? O forse non possiamo perché ci ribelliamo continuamente all’idea di un mondo che sempre più agitato tende inevitabilmente e crollare su sé stesso e la nostra ribellione si manifesta come un’estrema irrequietezza?
Alla fine credo che le risposte a queste domande siano unicamente altre domande, e forse ogni domanda e molto più esauriente ed utile che una qualunque risposta che potremmo darci, perché solo pensando ci tranquillizziamo
Scappiamo allora su un prato e con gli occhi persi nel blu del cielo fermo, calmo, tranquillo, ascoltiamo la musica profonda di Tchaikovsky, che nel suo crescendo ed apparente caos è in realtà tutto fuorché agitata.
Tommaso Marmo – Direttore dell’Ufficio Stampa del Liceo G.D. Cassini di Sanremo