Per celebrare i trent’anni esatti dalla scomparsa del grande artista americano, si è tenuta al palazzo ducale di Genova una retrospettiva, conclusa il 26 febbraio, dedicata ad Andy Warhol.
L’emozione che si prova d’innanzi ad un’opera di Andy Warhol è puro sconcerto. La logica rimane così ingannata dall’assurdità di ciò che vede che il pensiero può muoversi liberamente all’interno dei colori e delle forme perdendosi in se stesso. Se si è capaci di mantenersi distaccati dalla reazione immediata che le sue opere suscitano, si riesce allora a scivolare nella propria storia mettendo a fuoco degli aspetti che l’artista vuol porre all’attenzione di tutti ma che non tutti sono pronti a cogliere.
Camminando nelle diverse sale, muovendosi all’interno della mente di Warhol, si ha la sensazione di venire gettati nel mondo delle meraviglie di Alice dove un oggetto comune diventa mezzo attraverso il quale l’immateriale diventa parte del quotidiano.
Esempio lampante è “Skull”, una delle tele meno conosciute ma più inquietanti, nella quale l’artista ha espresso la sua incomprensione davanti al mistero della morte. L’immagine è semplice: un teschio su un tavolo, ma i colori con i quali è stato dipinto, nella loro assoluta incoerenza, suscitano in ciascuno qualcosa di diverso. C’è chi riesce a percepirne il senso di terrore che quegli occhi così neri provocano, altri ribrezzo altri ancora rabbia. Nessuno può sapere con certezza cosa esattamente Warhol provasse ma sicuramente ognuno può cercare di capire cosa in quel momento sta provando. Così quelle sensazioni diverse che ciascuno prova di fronte ad un tema fondamentale per l’uomo, quale è la morte, sono accomunate dal genio di chi le suscita: l’artista.
È possibile però che alcune opere, invece, portino a concentrarsi su ciò che maggiormente si conosce riuscendone a marcare alcuni aspetti più o meno profondi. È in quel momento che si cade nella magia dell’arte. Modello sono le diverse polaroid che si sono potute visionare nell’ultima sala della mostra allestita a Genova, queste non colpivano per i colori, né per la stranezza dell’oggetto della foto, ma per la purezza del sentimento. Una di queste era lo scatto di un semplice grembiule bianco mosso dal vento. Quasi nessuno dei visitatori si era fermato a contemplare questa precisa immagine che aveva profondamente affascinato me; era, nella sua semplicità, vero simbolo di leggerezza e di maternità e allo stesso tempo era immersa in un clima di addolorato commiato. Non so cosa volesse raccontarmi Warhol ma dentro di me si è chiarito ciò che da tempo cercavo di comprendere: solo un vero artista sa sorprenderti facendoti gustare la nobiltà e la perfezione della normalità.
Al termine della mostra, ritornando nel mondo comune, lo straniamento che si prova è sintomo di qualcosa che per qualche ora si è introdotto nel profondo del nostro essere e che stenta ad uscirne; infatti è possibile incappare in oggetti o in fenomeni che poco prima si sarebbero ignorati ma che ora assumono tinte sgargianti e sono impossibili da non notare. Il mondo come lo si conosceva prima è scomparso e la realtà si arricchisce di colori variopinti e bizzarri che la fanno più potentemente esistere. Un mondo tutto da scoprire e da rileggere tramite il filtro della fantasia.
Potrebbe venire il dubbio che in realtà Warhol abbia semplicemente scelto quelle immagini e quei colori in modo casuale ma le emozioni che ciascun visitatore si porta con sé sono la prova tangibile che il modo di guardare il mondo è cambiato, qualcosa è accaduto, anche grazie a Andy Warhol.
Anna Mastrantuono – Ufficio Stampa Liceo G.D. Cassini