Sta facendo discutere nelle ultime ore il report de Il Sole 24 Ore, uscito lo scorso lunedì, che inquadra una volta di più un dato piuttosto preoccupante del quale si parla da tempo, ossia la fuga degli italiani all’estero.
Circa mezzo milione in tre anni, grossomodo come se dal territorio nazionale fosse sparita una fetta di popolazione poco più grande di quelle della provincia di Imperia e di Savona messe assieme. 191mila, solo nell’ultimo anno, in tutt’Italia, sono andati all’estero.
Numeri che con ogni probabilità sembrano maggiori, considerato che non tutti i cittadini si cancellano dall’anagrafe o si registrano a quello dei residenti all’estero (l’AIRE).
E proprio Imperia si piazza al secondo posto, dietro Bolzano, fra le province che vedono partire, per cercare fortuna oltre confine, molti dei propri residenti, con circa 13,5 persone ogni 1.000 abitanti. Purtroppo, un trend in crescita.
Ad andarsene, neanche dirlo, sono soprattutto giovani fra i 18 e i 34 anni, proprio quella fascia che sarebbe il principale capitale umano del territorio. Un territorio, quello dell’imperiese, che comincia sempre di più ad assomigliare ad una provincia del Sud Italia con il costo della vita di una del nord (negli ultimi report annuali sulla qualità della vita la provincia è risultata spesso agli ultimi posti fra quelle del nord e del centro Italia in molti parametri). Alto tasso di abbandono scolastico, bassa produttività, costi alti (in particolare per le abitazioni) e salari bassi.
Difficile capire come invertire una tendenza che sembra inesorabile. Ancora di più inchiodare responsabilità precise. Chiaramente chi amministra una singola provincia o i piccoli comuni, ha una responsabilità contenuta nel determinare le sorti di un apparato complesso come il sistema produttivo di un’intera area geografica (la Liguria e più in generale il Nord Ovest del Paese).
Una delle chiavi per porre rimedio potrebbe però venire dal modo in cui ci rapportiamo con una delle principali voci dell’economia locale. Forse la più nota: quella del turismo. Per anni è stato definito, in molte stanze che contano e in molte strade, fra la gente comune, “il nostro petrolio”. Tesi rilanciata peraltro di recente anche da un paio di ministri del nostro governo.
Molti progetti, piccoli comuni che ogni anno investono cifre importanti in calendari estivi sterminati, ed il piano (giustissimo e lungimirante) di costruire un’offerta turistica diversa, de-stagionalizzata e adatta al contesto del nostro territorio, dove gli spazi sono ridotti ed il ritmo delle stagioni influenza la vita quotidiana.
C’è però un problema di fondo. Quando si immagina di rendere la propria terra una rinomata località turistica di mare lo si fa molto spesso guardando magari alla Catalogna, alla California o, stando in Italia, alla riviera adriatica.
Ma la California, da sola, è la quinta economia mondiale, la Catalogna è uno dei principali motori economici del continente europeo e la riviera adriatica vive strettamente legata al triangolo produttivamente più ricco e prospero del Paese. Economie avanzate e molto diversificate.
Quando invece guardiamo a quelle località e a quelle regioni, dove il turismo “traina” davvero l’economia, o comunque ne ricopre una fetta di PIL importante, quello che ne viene fuori sono proprio (amara ironia) quelle zone d’Italia e del mondo dal quale la gente, ed in particolare i giovani, tende ad emigrare verso nuovi orizzonti.
Un pattern diffuso e consolidato, che trova le sue cause proprio nel turismo stesso, un settore scarsamente produttivo, a basso valore aggiunto (il valore che si produce dalla produzione di un bene o di un servizio, tolto il costo dei fattori necessari per produrlo), con pochi investimenti, posti di lavoro in larga parte poco qualificati e quindi, conseguentemente, salari bassi per chi quei posti li occupa. Un contesto quindi dove la ricchezza è poca (e spesso anche scarsamente distribuita).
Bisognerebbe insomma su questo punto mettersi d’accordo e decidere se vogliamo davvero che il nostro territorio debba vivere principalmente di turismo. Perché, se la risposta è sì, allora la proposta è quella di guardare questi dati da una prospettiva diversa. Se la risposta è sì, noi non stiamo perdendo lavoratori, ma stiamo guadagnando nuovi turisti. Turisti pregiati e molto speciali, perchè non servono nemmeno gli IAT e le strategie di marketing per fidelizzarli, in quanto conoscono bene il territorio. Ci sono nati e cresciuti, del resto. Sono legati a queste terre, dove sia per affetto verso amici, parenti o luoghi, torneranno sempre in visita. Faranno lavori meglio pagati in ogni comparto e verranno in vacanza “a casa loro”, conoscendo la provincia dalla prospettiva ad oggi migliore per poterla vivere. Quella del turista.
Quindi tranquilli ragazzi e ragazze, se vi chiedono perché ve ne andate, potrete rispondere semplicemente che vi state convertendo alle necessità produttive del vostro territorio.