“Al momento la situazione non è drammatica, spero che le restrizioni vengano rispettate dalla gente perché se si va in giro senza mascherina, non si rispettano le distanze, se le persone si incontrano senza precauzioni, non serve il sacrificio imposto ad esempio a bar e ristoranti”.
Lapidario e semplicemente chiaro nella sua analisi è Leo Pippione, ex sindaco di Sanremo e attuale presidente della Famija Sanremasca, l’associazione che ha il compito di mantenere viva la storia e le tradizioni della Città dei Fiori.
“Il nostro ospedale Borea che è stato destinato al ricovero dei malati Covid dell’intera provincia è nuovamente in una situazione di stress”.
Tornando indietro nella storia, Sanremo ha già avuto a che fare con epidemie e crisi sanitarie.
“Nel lontano passato Sanremo ha avuto i suoi tragici momenti di epidemie – dice Leo Pippione – specialmente il colera causato dalla mancanza di acqua potabile, la gente raccoglieva acqua direttamente dai ruscelli che erano inquinati da deiezioni a monte, sia di umani che di animali. Nel corso dei secoli i sanremesi hanno dovuto affrontare molte epidemie alcune delle quali vengono testimoniate da libri, altre come la spagnola ce l’hanno raccontata i nostri nonni o bisnonni”.
La funesta epidemia di colera asiatico colpì Sanremo nel luglio del 1837. In città i medici impegnati in prima linea erano Carli, Amoretti, Baldizzone, Ascenzo e Musso, e i chirurghi Taggiasco, Saccheri, Rodi, Ameglio e Bresca mentre ad occuparsi del lazzaretto era il ‘protomedico’ Guiglieri.
Nel successivo mese di agosto, dopo i primi casi di colera fulminante, venne creato un ospedale per colerosi mentre a ponente della passeggiata Imperatrice trovò posto un cimitero apposito, riservato ai morti da contagio, che successivamente divenne il cimitero monumentale della Foce.
Quell’epidemia contagiò circa ottocento sanremesi su una popolazione che allora era di 10mila abitanti e le vittime accertate furono quasi quattrocento.
Per tornare alla ‘spagnola’, Pippione sottolinea che rispetto ad oggi “… un secolo fa non c’erano le prescrizioni mediche né i farmaci per la cura e quell’influenza così virulenta causò qualche milione di vittime in tutto il mondo tra popolazioni già duramente provate dalla prima guerra mondiale che stava finendo in quelle settimane”.
Secondo le stime più accreditate, nel mondo furono 5 milioni le vittime di quella pandemia che prese il nome di ‘spagnola’ solo perché la Spagna, non coinvolta nel conflitto mondiale, non aveva imposto la censura ai giornali e i quotidiani iberici iniziarono per primi a pubblicare notizie su questa influenza letale.
Nell’autunno del 1918 poche settimane prima della firma dell’armistizio che decretò la fine della Grande Guerra, la ‘spagnola’ si manifestò anche nella nostra regione Liguria e i giornali iniziarono a parlarne ma sempre in forma molto ridotta con la fine del conflitto che monopolizzava tutte le prime pagine.
In quegli anni non era difficile morire per un’influenza ma quando iniziarono ad essere troppi i decessi vennero imposti provvedimenti molto simili a quelli attuali, dalla chiusura dei locali da ballo e dei cinematografi al divieto di assembramento in particolare sui mezzi pubblici che venivano presi d’assalto con la gente che si appigliava anche all’esterno per farsi trasportare.
La maggior parte delle vittime si riscontrò tra i soldati sconfitti e debilitati fisicamente, abbandonati al loro destino in marcia verso i luoghi di origine, e untori nei confronti degli abitanti di paesi e villaggi che incontravano cammin facendo.
I consigli degli operatori sanitari erano quelli di ricovero immediato all’apparire dei primi sintomi o in alternativa ricorrere allo stretto isolamento domiciliare: quest’ultima fu la scelta predominante a fronte dell’opinione molto diffusa che chi entrava in ospedale ne usciva da morto. La primavera successiva fu quella dell’annuncio della fine dell’emergenza ma non fu così: la spagnola tornò nel tardo autunno successivo e causò altri morti in tutto il mondo.
Grazie anche alla collaborazione del vice-presidente della Famija Sanremasca, il dottor Marco Mauro ex consigliere comunale, vengono ricordate altre due epidemie che causarono morti e sofferenze: quella di peste tra il 1579 ed il 1581, e quella del tifo petecchiale o esantematico che tra il 1818 ed il 1819 provocò centinaia di vittime e i tanti malati trovarono posto non solo nell’ospedale, in uno dei primi reparti di isolamento di cui si abbia memoria, ma anche nella chiesa di Nostra Signora della Guardia nella frazione di Poggio.
Tra terremoti, alluvioni, eventi meteo estremi, guerre ed ora anche il Covid, qualcuno inizia ad evocare la fine del mondo.
“Nooo, non esageriamo – dice Pippione – tra qualche settimana arriverà il vaccino e pian piano ci dimenticheremo di questo virus. Mi preoccupa solo l’atteggiamento di qualche genitore che rifiuta di far vaccinare i figli e di conseguenza non si vaccinerà neppure in questo caso. Si crea il rischio che vecchie malattie come morbillo e scarlattina tornino a diffondersi generando nuove emergenze sanitarie. Ma non ci si può fare la sanità in proprio, non va bene comportarsi così”.