Caro Mahmood, fai come credi, ma sul coming out non hai capito nulla!

Caro Mahmood, da alcuni giorni sei al centro dell’attenzione mediatica di questa Italietta provinciale che ancora si chiede se sia giusto o sbagliato che tu abbia vinto la più grande manifestazione canora italiana. Dal canto mio non posso che farti i complimenti, Sanremo, mia città natale, ha dato a te la più bella, per ora, soddisfazione della tua vita. Ti ha dato anche tantissima visibilità ed oggi non c’è testata giornalistica che non si chieda se il vincitore italo-egiziano sia anche omosessuale. Il solito segreto di Pulcinella? Si dice anche questo, ovviamente, e sono scontati i paragoni con Marco Carta che ha fatto coming out poco meno di dieci anni dopo la sua vittoria a Sanremo. Ma, diciamolo, in fondo lo sapevamo già tutti.

Il destino volle che al secondo posto, nel 2009, arrivasse la canzone più omofoba che Sanremo abbia mai ospitato. Figurati che persino io, che non tele-voto mai, diedi ben quattro voti a Marco Carta pur di non far vincere “Luca era gay”, storia di un ex-gay diventato eterosessuale. Ed è proprio a Marco Carta che tu facesti allusione quando in un’intervista a Vanity Fair dicesti che “dichiarare ‘sono gay’ non porta da nessuna parte, se non a far parlare di sé. Andare in tv da Barbara D’Urso per raccontare la propria omosessualità mi sembra imbarazzante: così si torna indietro di 50 anni”.

Ed è proprio qui, caro Mahmood, che sbagli. E di grosso. Sei gay? Non sei gay? Alcuni risponderanno che “non ci interessa conoscere il tuo orientamento sessuale”, altri, un po’ meno evoluti, diranno che “quello che fai sotto le lenzuola è affar tuo”.

Poi altri si chiederanno legittimamente se la tua “storia d’amore” di cui parli in una non recentissima intervista al sito gay.it è con un uomo o con una donna. E se lo chiedono perché tu non dici niente a tal proposito. E noi ce lo dobbiamo immaginare. Perché, vedi, fare coming out non significa (solo) andare da Barbara D’Urso e dire “sono gay”, lacrimuccia, abbracci, applausi. Significa anche rispondere, durante un’intervista, a domanda specifica, “ho un fidanzato”.

Significa non vergognarsi di essere fotografati con il proprio partner, significa persino evitare frasi tipo “sono innamorato di una persona” per non specificarne il genere.

Questo sì, è imbarazzante e ci fa tornare indietro di cinquant’anni.

Ovviamente non posso sapere se questo sia il tuo caso, e tu sei libero di mantenere riserbo sul tuo orientamento sessuale e sulla tua vita privata. Ma proprio per questo non puoi giudicare chi, a modo suo, decide invece di aprire la sua vita privata al mondo intero, anche se lo fa per vendere più dischi.

Perché il giorno dopo la tua vita non è più la stessa, sei una persona diversa, alcuni ti ameranno di più, altri di meno, ma la strada intrapresa sarà a senso unico. Quindi sarebbe doveroso rispettare chi è entrato in questo senso unico perché non è mai una scelta semplice.

Oggi c’è ancora chi si sente in dovere di difenderti dalle “accuse” di omosessualità, come se essere gay fosse un crimine, una vergogna e supporre che qualcuno lo sia senza averne le prove sia un’ingiuria, un’offesa.

Capisci a cosa serve il coming out? Tutto qui, nessuna lezioncina, non ne hai bisogno, i giovani di oggi sono molto più pronti di noi ad affrontare certi temi. Sai benissimo che il coming out a molte persone è costata la vita, ad altre gli affetti, ma sai anche che il loro sacrificio ha permesso alle nuove generazioni di vivere la loro sessualità più liberamente. Quindi anche tu devi a costoro qualcosa, che tu sia etero, omo o bi.

Marco Antei