Tra Otto e Novecento la regione del Plata era la porta del Sudamerica, da cui passavano non solo uomini e merci ma anche abitudini di vita e contenuti culturali. Tra questi, el juego de los ingleses locos incontrò molto rapidamente i favori dei nativi.
La passione per il football, dopo aver coinvolto alta società e borghesia creola attraverso la rete delle scuole britanniche, non tardò a investire i settori popolari e i figli degli emigranti, soprattutto nelle città portuali dove era facile vedere i marinai inglesi giocare in campi improvvisati nei momenti di pausa.
La Boca, intorno all’estuario del Riacheulo nel Rio de la Plata, dove si parlava genovese data la preponderanza di liguri tra i suoi abitanti, oltre che roccaforte del dissenso, mazziniano prima, socialista e anarchico poi, era il luogo mitico del tango, il ballo di cui, secondo Borges, nessuno può dire se sia nato a Buenos Aires, a Rosario o a Montevideo, ma tutti sanno in quale via: la via delle prostitute.
Il quartiere portuale della capitale argentina godeva di pessima fama essendo considerato covo di prostitute, balordi e contrabbandieri, tanto che il grande giornalista francese Albert Londres lo considerava una coscienza che, appesantita di tutti i peccati morali e trascinata a riva, sopravvive alle maledizioni del mondo.
Ma proprio lì, nell’aprile del 1905, in casa dei Baglietto, emigranti varazzini, vide la luce uno dei club calcistici più titolati del mondo: il Boca Juniors. Se il soprannome con cui diventerà famoso, La Xeneise, non lascia adito a bubbi circa la componente maggioritaria, il nome ribadiva la volontà di rappresentare tutti coloro che vivevano nel barrio e non solo i genovesi o gli italiani come sarebbe avvenuto se fossero state accettate altre proposte quali Hijos de Italia o Estrella de Italia.
È significativo che quattro anni prima, sempre nei paraggi della Darsena Sud, alla fondazione del River Plate, fra le varie proposte per la scelta del nome c’era anche anche quella di Juventud Boquense anch’essa a riprova di un sentimento di nuova appartenenza che travalicava le diversità etniche.
Col tempo le due squadre avrebbero dato lezioni di calcio in tutto il mondo, l’insegnamento più bello, però, è quello offerto da quei giovani dell’angiporto malfamato.
Non erano antropologi, erano carpentieri, scaricatori, marinai. Vissuti quasi un secolo prima di James Clifford e di Kwame Appiah, non avevano mai sentito parlare di ‘radicamenti mobili’ o di ‘cultura come articolazione’, ma il loro agire dimostra che le identità non sono un qualcosa di naturale e immutabile bensì produzioni culturali composite e rispondenti alle sollecitazioni della storia.
Lezione preziosa ancor oggi, tempo di muri da cui fanno capolino gli infausti miti della terra e del sangue.
Francesco Sarchi