“Lasciatemi soffrire tranquillo” implorava Massimo Troisi in ‘Pensavo fosse amore ed invece era un calesse’, con la solita amara ironia che lo ha contraddistinto. Eppure basta affacciarsi nei Pronto Soccorso della Riviera e la frase del comico napoletano torna in mente, senza ironia ma tanta amarezza. Riviera Time ha tastato con mano la situazione di Imperia purtroppo per una emergenza. Peraltro in una giornata da bollino (e non codice) nero, con accessi continui che affollavano il reparto, sempre più simile ad un cerchio dantesco.
In sala d’attesa, a fissare un monitor dai caratteri microscopici e nella speranza di vedere il proprio nome scalare la graduatoria manco fosse una classifica sportiva, due signore tenevano la caviglia all’insù da metà mattinata. Il loro turno per i raggi sarebbe arrivato soltanto dopo le 21. Sorte simile per una ragazza entrata per pranzo a causa di uno svenimento ed ancora in aspettativa di visita dopo cena. Mentre lo scrivente aveva ‘maggiore fortuna’: le dimissioni arrivavano dopo sette ore dall’ingresso.
Nel mezzo, svariati pazienti abbandonavano le speranze: se ne andavano arrabbiati dal nosocomio, dopo ore dall’accettazione, senza un controllo. Nella totale impotenza di medici ed infermieri che, insufficienti nei numeri, si adoperavano senza soste per tamponare il continuo flusso di accessi e ‘chiedevano rinforzi’ alla direzione. Evidentemente senza risposte soddisfacenti.
Completava il quadro un signore dagli abiti stracciati, maglia bucata, pantaloni sdruciti, ‘patta’ perennemente aperta, ciabatte rotte, alla ricerca continua di una sigaretta dalle persone in attesa come lui o dai soccorritori che giungevano. A spanne, ne avrà fumate una quindicina facendo la spola tra dentro e fuori, con quel confine segnato dal triage. Una sorta di dogana che spalancava la porta della sala di attesa sul reparto.
Dove i letti ravvicinati tra loro, e parcheggiati ai lati del corridoio, ospitavano pazienti con codici prioritari. Tutti in attesa di una visita, di un sostegno o di un conforto – ah si! Perché dopo il Covid, gli ingressi dei famigliari sono stati considerevolmente limitati -. C’era chi si teneva una benda su una ferita sanguinante; chi vomitava; chi si lamentava; chi utilizzava un pappagallo o una padella cercando di nascondersi come poteva. Così ho pensato a Troisi: è giusto arrivare a questa età e ‘non poter soffrire in pace’? Senza la minima intimità.
Intendiamoci. Infermieri e dottori erano continuamente sotto pressione. Avrebbero voluto sdoppiarsi, triplicarsi se possibile ma, davanti ai pazienti, dovevano ammettere: “Siamo troppo pochi, stiamo facendo il possibile!”. Devono reggere carichi pesanti ad ogni turno, aggiungendo la rabbia ‘sputata’ da pazienti e famigliari spossati dalle attese. Specchio delle famose chilometriche liste, con appuntamenti fissati a mesi.
Una gentile ragazza in maglia gialla mi accompagna alla radiologia, passando per i sotterranei dove incrociamo anche una squadra di pubblica assistenza. Se non fosse per lei, per loro, per i ragazzi in maglia gialla, gli infermieri dovrebbero occuparsi anche del trasporto in altri ambulatori o reparti, perdendo tempo ulteriore. E’ un servizio sottovalutato ma preziosissimo. In soccorso, sulle strade, agli eventi, ci sono gli encomiabili militi in divisa. Banalmente penso: è mai possibile che un servizio pubblico così importante, come è la sanità, si basi fondamentalmente sul volontariato e sulle passione di chi lavora?
Non cerco risposte alle mie perplessità che, nel frattempo, aumentano. Il dottore mi visita in una sala che appare improvvisata come è l’intero reparto. Il Pronto Soccorso ad Imperia, da giugno 2022, è stato spostato nella palazzina accanto. Il dipartimento è in fase di ristrutturazione e rinnovamento. Prima di tornare a casa mi affaccio così sul cantiere: il cronoprogramma dice che i lavori sarebbero dovuti terminare il 27 ottobre. Ormai due settimane fa. Del nuovo Pronto Soccorso c’è soltanto lo scheletro, ben lontano dall’ipotesi di aprire nei prossimi giorni.
Così raccolgo informazioni: i sindacati sarebbero sul piede di guerra. Ma soprattutto non ci sarebbe ancora una data per l’apertura del nuovo reparto. Altro che Ospedale Unico.
Riavvolgo il nastro e penso a quando Toti, qualche giorno fa, venne a Sanremo per annunciare la riapertura del secondo punto nascite in provincia (comunque procrastinata a febbraio). E davanti all’appunto mossogli da un arrabbiatissimo Roberto Basso, sembrò minimizzare (assieme ad alcuni amministratori presenti nella sala del Comune) il grido di allarme nascondendosi dietro allo slogan “Basta giocare con la sanità per fare politica”. Ecco, a proposito di aperture promesse: era il 26 ottobre.
Giovedì scorso, 9 novembre, sono i festosi commenti di Toti e Gratarola (assessore regionale alla Sanità) che celebravano il parere positivo sul piano socio-sanitario ligure 2023-25, proveniente dal Ministero. Ma la logica (e le date) impone a pensare che dovremmo trovarci nel pieno svolgimento del programma; i pareri probabilmente andavano ricevuti, a occhio e croce, un anno e mezzo fa.
Già che ci siamo, apriamo una piccola parentesi. Le parole del governatore e dell’assessore vanno anche interpretate. Non è una questione faziosa e nemmeno vogliamo scomodare programmi televisivi recentemente protagonisti. Ma la distanza tra chi amministra e la cittadinanza si misura anche dalle comunicazioni che dovrebbero risultare comprensibili ad una platea più ampia possibile: “La certificazione del ministero della Salute definisce la bontà del Piano regionale e ne evidenzia alcuni aspetti particolarmente positivi tra cui il rafforzamento dell’offerta territoriale, una sempre maggiore presa in carico individualizzata e un’ulteriore salto di qualità nella direzione della digitalizzazione. Il ministero ha particolarmente apprezzato l’integrazione tra territorio e ospedale attraverso il rafforzamento del territorio attraverso un’offerta capillare e diffusa sia per gli aspetti sociali e socio sanitari sia per quelli sanitari tout court, lasciando alla componente ospedaliera la risposta alle patologie acute e alle grandi patologie” scrivono nel comunicato. Boh.
Nella missiva del Ministero veniva sottolineata la bontà del progetto riguardante le Case di Comunità, centrali nei piani del Governo. I dati di Agenas (Agenzia per i servizi sanitari regionali), a livello nazionale, sono però impietosi: il Pnrr ha finanziato le strutture socio-sanitarie per 7 miliardi prevendendone 1.430 entro il 2026. Ma a settembre di quest’anno erano attive soltanto 187 e di queste, solo il 17%, facevano copertura continuata per tutta la settimana. Le Case di Comunità dovrebbero costituire un punto di riferimento per la popolazione con funzioni di assistenza sanitaria primaria, prevenzione e promozione della salute. All’interno di queste dovrebbero trovarsi medici di medicina generale, pediatri, specialisti e infermieri ma, nei dati, si riscontra una assenza del 46% totale dei medici di famiglia o con ridottissimi orari di presenza. Numeri accentuati per gli specialisti comunque sottratti a reparti che invece implorano nuovi ingressi negli staff.
Sul nostro territorio, la realizzazione dei progetti appare lontano, probabilmente 2025. A fine ottobre sono state firmate le intese per il comodato d’uso gratuito degli ambienti che ospiteranno le case di comunità a Taggia, al primo piano della stazione ferroviaria, e a Ventimiglia, negli ex locali Eiffel. Entrambi ad un passo dai binari. Per il paese delle Olive poi si tratterebbe di una decentralizzazione: la Casa di Comunità dovrebbe sostituire alcuni servizi base degli ospedali, così riunirli in un’unica struttura potrebbe funzionare. Ma, come si è chiesto il collega Davide Avena nel suo reportage, a fronte di una popolazione sempre più anziana, ha senso allontanare questi servizi dai centri cittadini rendendoli sempre più scomodi?